Note critiche Rassegna bibliografica: Le singolari forme politico-culturali del comunismo italiano Roberto Fineschi, Nel labirinto. Italo Calvino filosofo, La scuola di Pitagora, Napoli 2025; Sebastian Mattei, Fabrizio Rufo, Giovanni Berlinguer. Gli studi e l’impegno politico, Carocci, Roma 2024; Giuseppe Vacca, Astratti furori e senso della storia. Politica e cultura nella sinistra italiana (1945-1968), Viella, Roma 2025, pp. 302-304.
Alessandro Barile
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Che non si sia trattato di una storia soltanto o soprattutto “intellettuale” è testimoniato anche dal percorso politico-filosofico e biografico di Italo Calvino, di cui è oggetto l’ultimo libro di Roberto Fineschi, Nel labirinto. Italo Calvino filosofo. Calvino in effetti si presenta come simbolo di un certo mondo intellettuale coinvolto dallo spirito ciellenistico resistenziale, e grazie a questo transitato “naturalmente” al comunismo togliattiano come (più) coerente proiezione del fatidico “vento del nord” che incedeva rinnovando moralmente il paese nella difficile transizione alla democrazia e alla repubblica.
Negli anni attorno al centenario della nascita (1923-2023), nonché in occasione dei quarant’anni dalla sua scomparsa (1985), una considerevole mole di ricerche, ristampe e pubblicistica varia ha trovato pubblicazione e letteralmente invaso le librerie. Su tutte, si segnala quantomeno la collana inaugurata presso l’editore Carocci, Laboratorio Calvino, curata tra gli altri da Mario Barenghi, tra i massimi studiosi dello scrittore ligure. Fineschi, fresco della nuova traduzione del Capitale di Marx (Einaudi 2024) e della ripubblicazione aggiornata di Marx e Hegel. Fondamenti per una rilettura (La scuola di Pitagora 2024), si concede a una pubblicazione di più breve estensione (190 pp.) ma ambiziosa e d’impianto coerentemente politico-filosofico (l’autore premette infatti la distanza da una qualsivoglia analisi critico-letteraria di Calvino).In realtà, però, il marxismo di Calvino è assai peculiare. Come giustamente rileva Fineschi, l’adesione di Calvino al comunismo avviene sulla scorta dell’esperienza resistenziale (un percorso d’altra parte tipico della sua generazione). È una scelta pragmatica, coerente con l’afflato che animava una parte degli intellettuali del paese (vedi Vittorini), che confluisce nel comunismo da propositi teorici e culturali assai diversi. Calvino, di tutto questo, è exemplum tra i massimi. Si affaccia alla Resistenza da posizioni «anarco-liberaleggianti» (sono “confessioni” di Calvino, che Fineschi correttamente riporta, anche se ne circoscrive la portata), e fluisce poi nel comunismo da presupposti culturali-ideologici eclettici: neokantismo illuminista, razionalismo, storicismo declinato nella linea Croce-Gramsci e, quindi, marxismo declinato e inteso come “filosofia della prassi” (la cui linea genealogica sarebbe più (Labriola)Gentile-Gramsci che Croce, come giustamente chiarisce lo stesso Fineschi nel suo Marx e Hegel). È l’estrema apertura culturale del comunismo togliattiano, che si innesta nell’effervescenza dello spirito resistenziale, a rendere possibile la partecipazione al suo interno di un variegato ceto intellettuale altrimenti ideologicamente diviso e sicuramente a digiuno di marxismo come fonte prioritaria della comprensione del mondo.
Dopo il 1956, e soprattutto dopo l’esaurimento dell’efficacia della politica culturale comunista occasionata dallo scontro con la modernizzazione economica, Calvino abbandona lo storicismo come punto di vista generale capace di cogliere le trasformazioni in atto, rafforzando la propria posizione polemica in connessione con le istanze del Nord di cui abbiamo accennato in precedenza (fin troppo noto lo scritto del 1956, Nord e Roma-Sud, pubblicato su «Il Contemporaneo»). Il suo razionalismo dapprima giustifica il suo “marxismo” accentuando il posizionamento morale, poi si congiunge con il neopositivismo delle scienze sociali, individuato come unica possibile forma di conoscenza della realtà dopo i fallimenti del marxismo stesso nel saper prefigurare lo sviluppo neocapitalista. Tutto questo prima e a ridosso del Sessantotto, valutato severamente da Calvino come forma latentemente irrazionale dell’azione politica.
Epperò, il Calvino degli anni Sessanta esprime il disagio di una parte del ceto intellettuale organico al Pci negli anni Cinquanta. La «antitesi operaia» – titolo di un suo celeberrimo scritto del 1964 – è ancora possibile in un “neocapitalismo” che procede integrando la contraddizione operaia nel suo stesso modello di sviluppo? È ancora possibile una contraddizione fondata oggettivamente nei rapporti di produzione? Calvino – e con lui un’intera generazione che attorno a questi problemi alimenterà poi la mobilitazione del “lungo Sessantotto” – si domanda e tenta di avanzare risposte di fronte ai nuovi problemi che pone lo sviluppo capitalistico all’interno delle democrazie occidentali. La soluzione sarà, per lui, la «fuga dalla politica»: stretto tra il «riformismo operaio» del Pci e l’irrazionalismo della nascente «nuova sinistra» (un irrazionalismo in quanto anti-illuminismo, vedi p. 95), Calvino rompe l’organicità della dimensione politico-culturale rifluendo di fatto nel disimpegno. Non è il solo che rimarrà afono di fronte all’innalzamento dello scontro di classe e all’incapacità o impossibilità di razionalizzare soluzioni politiche sempre più conflittuali: da Franco Fortini a Sergio Leone, da Lucio Colletti a Vittorio Strada, da Franco Venturi agli operaisti Cacciari, Tronti e Asor Rosa, saranno in molti a rimanere disorientati, rinunciare alla politica o, viceversa, rientrare nel Pci dopo le avventure dell’estremismo.
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