Wednesday, 22 October 2025

PHILOSOPHY AND/OF ECONOMICS. CRITICAL APPROACHES TO STANDARD THEORIES


It's a pleasure to announce the release of the new issue of "Metodo", edited by my friend and comrade Pablo Pulgar Moya and me.

The title is PHILOSOPHY AND/OF ECONOMICS. CRITICAL APPROACHES TO STANDARD THEORIES; it offers contributions for the critique of mainstream economics.


With Erzsébet Rózsa, Juan Ormeño Karzulovic, Clara Navarro Ruiz, Patrick Murray, Pablo Pulgar Moya, Roberto Fineschi and Roberto Escorcia Romo, Federica Giardini, María Ignacia Banda Cárcomo and Nicole Darat Guerra, Óscar Orellana Estay and Roland Durán Allimant, Joan González Guardiola.


Please, circulate widely! Thanks!



Wednesday, 15 October 2025

Marx, Hegel y metodo. Grabación de mi ponencia al congreso madrileño




Hola amigas y amigos marxistas y izquierdistas (y seres humanos en general) 
Aquí las grabaciones del gran congreso madrileño de junio!

Sunday, 12 October 2025

Mazzini e il Risorgimento

Mazzini e il Risorgimento


Un taglio un po’ nazionalistico più che patriottico nel senso mazziniano quello del Museo del Risorgimento, ma questo in fondo è la grande questione interpretativa della sua eredità spirituale e politica: popolo come legame di sangue o popolo come luogo della sviluppo della civiltà democratica?
Forse in Mazzini ci sono un po’ tutti e due, ma la natura sinceramente democratica, seppur entro i limiti borghesi, basata su libertà e eguaglianza e paritaria partecipazione alla costruzione della vita politica comune credo siano gli elementi costitutivi che tagliano le gambe all’interpretazione fascista che fa più leva sul lato romantico, sulla missione, ma che omette di essere il fascismo un movimento razzista e discriminatorio, vincolo che esclude la cittadinanza nazionale come momento costruttivo di quella universale.
E il fascismo fu il “compimento” del risorgimento, sì, ma in tutti i suoi aspetti negativi, genericamente nazionalistici e classisti.


I limiti della posizione mazziniana - interclassismo, incapacità di concepire un ruolo attivo delle masse contadine, sacralità della proprietà privata, ecc. - sono classicamente dibattuti.
Il punto nodale però è che i temi risorgimentali sono sostanzialmente scomparsi (museo deserto e non so dire quanto frequentato), da una parte per il suo carattere antipopolare che lo ha reso poco utilizzabile dalle forze progressiste se non come avviamento di un processo che poi si sarebbe compiuto con ben altre svolte (lotta di classe, rivoluzione proletaria, ecc.), e da rivendicare più per il suo slancio battagliero (Garibaldi) che per l’effettiva capacità pratica. Dall’altra perché anche il fascismo superstite post seconda guerra mondiale è stato sostanzialmente manovalanza atlantista e ora sudditanza smaccata e poco dignitosa.
Neppure il fascismo del ventennio, nonostante la sua propaganda nazionalista e populista, è riuscito a far braccia nell’atavica paura e timore nei confronti delle istituzioni di gran parte della popolazione… e a ben ragione per la sua soluzione violenta del conflitto di classe e per la tragedia della guerra in cui ha condotto il paese.

Forse quello che il Risorgimento ci può ancora insegnare è in negativo, ovvero quali sono stati i limiti di un movimento potenzialmente emancipatorio, animato anche da leader di buona volontà e sincera ispirazione democratica, che però non hanno saputo che pesci prendere da un punto di vista di obiettivi, organizzazione e strategia. E hanno infatti perso, salvo poi essere trasformati dai loro nemici vincitori in icone da sventolare loro malgrado o cui issare monumenti equestri (Mazzini morto nascosto con una condanna a morte sulla testa, Garibaldi al confino).


Ma poi hanno perso anche i loro nemici e non ha vinto nessuno. Ha vinto il capitale di un altro paese che ora progetta di succhiarci il sangue fino all’ultima goccia. E si capisce che qui emergono di nuovo due prospettive conflittuali: quella dell’orgoglio nazionale (fascisteggiante) e quella dell’emancipazione sociale che come tale non ha base nazionale di per sé, ma è di classe, quindi di struttura economica e non di popolo.
Ciò detto non si può non fare i conti con le condizioni attuali e con ciò che concretamente è possibile fare seppur in minima misura.
Contribuire alla salvaguardia e allo sviluppo sociale, date le condizioni attuali, non può ignorare la dialettica dello stato nazionale e del suo collocamento negli equilibri mondiali. Rispetto ai tempi risorgimentali, sono tuttavia completamente diverse le carte in gioco e la questione nazionale, in un contesto di schieramenti transnazionali con delle leadership immensamente più grandi, rischia di trasformarsi in una gabbia.

Non significa fare campismo, ma prendere semplicemente atto della cruda realtà per cui uno sviluppo sociale per adesso si realizza pesantemente anche in un contesto nazionale (diritti sociali, politiche del lavoro, fiscali, dei redditi, ecc. sono gestiti e si gestiscono attraverso lo stato) ma che ciò avviene tuttavia nel contesto della guerra dei mondi, in cui l’Italia, o chi per lei, da sola ha poca (o nessuna) voce in capitolo, né alcuna prospettiva di sviluppo se non come momento subalterno delle dinamiche maggiori. È in questo spazio in cui si opera, tra salvaguardia dei diritti sociali a livello locale, collocamento proficuo nel contesto internazionale e prospettive di emancipazione di lungo corso. Anche perché il vecchio padrone vuole il sangue nostro, ma lo avrà via interposta persona, ovvero grazie alle politiche del nostro governo.
Questo non lo si può fare senza ipotizzare processi egemonici che tengano in qualche modo conto della “questione nazionale”, ovvero degli interessi di altre classi o ceti che possono convergere verso obiettivi comuni di sopravvivenza.

Friday, 10 October 2025

Sommersi o salvati. O della crisi sistematica del capitalismo crepuscolare



Sommersi o salvati
O della crisi sistematica del capitalismo crepuscolare
(schematico quadretto di riferimento)

Le dinamiche del capitalismo crepuscolare sono legate a trasformazioni dei processi produttivi e dei relativi rapporti sociali che hanno un impatto non indifferente sulla vita associata e sulle risposte politiche correlate dei vari partiti.
La premessa teorica generale è la tendenza di sistema all’estromissione dei lavoratori dal processo lavorativo per il perfezionamento tecnologico da un lato, la sempre più difficile valorizzazione reale del capitale dall’altro per la crisi strutturale di sovrapproduzione. Ciò da un lato determina la rinascita del capitalismo di rapina, che cioè non valorizza effettivamente il capitale attraverso il processo reale di produzione, ma lo fa o in maniera speculativa o sottraendo risorse o imponendo decisioni anti-economiche ad altri soggetti che aumentano la rentabilità di un qualche capitale ma solo attraverso un trasferimento di ricchezza a somma zero da parte di terzi. Dall’altra pone il problema di una disoccupazione di massa interna (servono sempre meno lavoratori attivi, inclusi quelli intellettuali) e migrazioni internazionali dovute a guerre, carestie, impossibilità di sopravvivere a casa propria per gli effetti del capitalismo di rapina. Tutto ciò pone delle domande cruciali ai governi dei paesi centrali o semi-periferici nella gestione politica delle dinamiche interne ed esterne. Vediamo qualche ipotesi generale.
Di fronte a una crescente disoccupazione strutturale, la pletora di lavoratori disponibili pone problemi di fondo, sia per gli interni che per gli esterni. Se tutti non potranno lavorare, si pone il problema fondamentale non solo delle condizioni di esistenza materiale di questi individui, ma anche della loro pratica sociale e della consapevolezza che essi ne hanno. Ne viene intaccata l’universalità del concetto di persona, il fondamento dell’ideologia della società borghese stessa perché strutturalmente vengono meno le condizioni per cui tale personalità possa essere praticata o, peggio ancora, le condizioni per cui essa possa essere praticata implicano la violazione del concetto universale di persona e quindi, potenzialmente, la premessa per una sua riduzione a sub-universalità, per la quale persone vengono considerati non gli esseri umani in astratto ma determinati sub-raggruppamenti. L’impossibilità di espandere il concetto di persona, anzi la sua riduzione progressiva, è il segnale delle crisi di egemonia reale del modo di produzione capitalistico.
Ciò significa che le forme di potere che si esercitano, che in passato si sono basate sulla combinazione di uso della forza (dominio) e di effettivo coinvolgimento progressivo delle masse subalterne (egemonia), perdono progressivamente il secondo aspetto e tendono sempre più verso il puro dominio. Ciò si collega a dinamiche di nuovo tipo nella gestione delle masse subalterne sempre più ricondotte a una autopercezione non funzionale di classe, ma di atomi individuali. Come gestirli, soprattutto se in larga parte non servono più?
Recupero legittimo della violenza contro terzi. Il declassamento di numerosi esseri umani a sub-umani allenta i vincoli nella considerazione di che cosa è violento o meno, perché la titolarità dei diritti di inviolabilità, ecc. non si predica di molti individui e quindi ciò che si è tenuti a rispettare è diverso. È il recupero strutturale del razzismo come elemento portante della riproduzione sociale.
Il consapevolmente perseguito istupidimento dei soggetti attraverso una scuola poco efficiente da un lato e la diffusione di tecnologie pervasive e coartanti dall'altro, per cui da una parte non si è dotati degli strumenti per capire, dall’altro si è intenzionalmente inebetiti con meccanismi in tutto analoghi a quelli delle droghe. La diffusione di massa delle droghe vere e proprie (problema oramai endemico negli Stati Uniti) risponde agli stessi meccanismi.
Aggregazione degli atomi individuali, che oramai non percepiscono più la loro funzionalità di classe, intorno a parole d’ordine di ceto, di interesse personale, premessa questa di una predisposizione negativa e violenta verso altri raggruppamenti che possono entrare in competizione con le condizioni del loro interesse personale.
Siccome questa massa informe non è più necessaria se non come consumatrice (ma se non è in grado di ottenere positivamente reddito le sue condizioni di consumatrice sono una voce meno nel bilancio sociale generale), su di essa si possono prendere decisioni drastiche. Da una parte la si può lasciar sopravvivere trasferendo ricchezza nelle sue tasche attraverso elargizioni di Stato (reddito di cittadinanza o similia), dall’altra si può procedere in maniera più drastica con la mera soppressione. Oppure si può mischiare la relativa tolleranza interna con la soppressione esterna.
La dicotomia destra/sinistra nei partiti politici scompare, almeno nel suo significato tradizionale. Mentre una volta essa si riconnetteva anche alle riforme di struttura nella gestione della riproduzione sociale, adesso si accetta universalmente il paradigma neoliberale e ci si distingue solo per la maggiore o minore crudezza nella dicotomia tra salvare o sommergere, tra garantire minime condizioni di sopravvivenza a una crescente massa di straccioni o reprimerli/ucciderli a seconda che siano interni o esterni.
Stati che vivono sulla premessa di una ricchezza debordante disponibile e la presenza di una povertà di massa già esistono. Sono luoghi in cui gli straccioni per sopravvivere rapinano per strada, rapiscono il ceto medio per chiedere due lire di riscatto, mentre i veri ricchi stanno chiusi e protetti in ben munite fortezze, sorvegliati da eserciti privati. Le domande impellenti sono le seguenti: 1) la nostra società occidentale tende definitivamente verso una latino-americanizzazione e finirà per assumerne le dinamiche suddette? 2) Può in generale un sistema basato su questi presupposti durare?
Se l’ipotesi di una comune rovina delle classi in lotta viene notoriamente considerata da Marx nelle prime pagine del Manifesto ciò non è per mero artificio retorico; è successo più di una volta che potenti e sofisticate società siano finite, implose senza che si riuscisse a metter mano ai meccanismi di fondo. La sfida è mettere mano a tali meccanismi. Marx ipotizzava che in seno allo stesso modo di produzione capitalistico si sviluppassero le condizioni di una nuova organizzazione della società: una produttività sconfinata del lavoro, l’integrazione mondiale della riproduzione sociale complessiva, lo sviluppo della scienza anche per rendere gestibile un processo del genere. Tutto ciò è già realtà. Marx credeva che anche il soggetto, il “seppellitore” si producesse altrettanto necessariamente; da questo punto di vista le cose sembrano essere più complesse, come complesso pare ipotizzare forme di gestione della riproduzione sociale senza merce e denaro, salario, ecc., vale a dire senza alcune delle categorie fondamentali del modo di produzione capitalistico, quelle che tra l’altro danno origine al feticismo delle merce, del capitale, ecc. e alle sue forme soggettuali (la sostanzialità dell’astratto individuo umano pre-sociale e a-storico, i processi sociali come processi di cose extra commercium hominum). Le sfide pratiche che ci stanno di fronte non possono esulare dall’affrontare questi nodi cruciali anche di carattere teorico.

Friday, 3 October 2025

Riflessioni a partire dallo sciopero

Riflessioni a partire dallo sciopero


I. Problemi di costruzione di un’identità politica di classe

Nonostante i deliri dello ius sanguinis e il “patriottardismo” del ventennio in nero, la stessa nozione di “popolo italiano” è un costrutto storico in divenire e, nonostante più di centocinquantanni di esistenza istituzionale, tutt’altro che consolidato.
La frantumazione secolare, le differenze socio-economiche, culturali, istituzionali, linguistiche delle varie zone dell’attuale Italia politica hanno reso la creazione di un’entità definibile “popolo italiano” quanto mai complessa, irta di difficoltà e resa ancor più accidentata dalla peculiare composizione della lotta di classe in quel contesto.
La sempre sottolineate estraneità – o addirittura opposizione – delle masse popolari per lo più contadine al processo risorgimentale, il carattere dispotico e disumano del regime liberale prima, del fascismo poi (ed il primo in verità meno popolare del secondo) hanno alimentato quello stesso sentimento di non immedesimazione, distacco, ribellione anarcoide contro le istituzioni, qualunque esse siano.
Solo la nascita dei movimenti socialisti prima e comunisti poi da una parte, lo strutturato solidarismo paternalistico cattolico dall’altra hanno contribuito a organizzare il comune sentimento di essere sulla stessa barca di una massa di diseredati mai diventati pienamente cittadini in senso “borghese”.
Il tardo e limitato sviluppo capitalistico, il carattere ultraelitistico delle classi dirigenti italiane hanno limitato il processo progressivo di borghesizzazione della società – la cittadinanza, l’identificazione progressista, e non puramente retorica, di nazione e stato – a una fascia limitata della popolazione, escludendo il “popolo”.
La natura di fondo anarcoide e disorganizzata di questo popolo, la refrattarietà a identificarsi in organizzazioni istituzionali, come si diceva, solo in parte è stata compensata dall’attività politica organizzata dei partiti di massa e ha lasciato fuori da questi processi una larga parte della popolazione che ha continuato a preferire, come aveva fatto per secoli, di far buon viso a cattivo gioco, senza capacità trasformativa di largo respiro, mirando al proprio “particulare” date le circostanze esternamente date (Guicciardini teorizza e docet).
In essi matura dunque semmai un sentimento solidale destrutturato di comune umanità diseredata (qui gioca un ruolo anche la comune matrice cattolica dell’essere umano in generale come individuo intimamente, ma non istituzionalmente, personale) contro l’istituzione nemica che può sfociare più in forme di ribellismo e/o più comunemente di dissenso passivo (mancata o finta adesione) piuttosto che in organizzazione e progettualità politica attiva. Questo aspetto è rappresentato emblematicamente per es. in alcuni film di Monicelli (si pensi al finale de La grande guerra).
In casi eclatanti di violenza istituzionale può esplodere fragorosamente per una durata limitata e senza stabile prospettiva trasformativa.
Be’, a questo ci troviamo di fronte per l’ennesima volta anche oggi. La sfida politica, che in parte era stata vinta nei decenni del secondo dopoguerra, è dare un ordine e un’organizzazione a un movimento con tanto stomaco ma con una testa tanto più piccola del corpo. Le recentissime elezioni hanno confermato questa situazione: nessuna coincidenza tra protesta popolare di massa e risposta politica istituzionale.
È ancora una volta la sfida gramsciana dell’organizzazione e dell’egemonia che va affrontata urgentemente. Altrimenti, finita la “buriana”, i cattivi si faranno sentire da par loro.

II. Recapitulatio

1) Un paese viola da decenni il diritto internazionale.
2) Recentemente (e già prima non scherzavano) questa violazione ha assunto dimensioni di violenza inaudita, esplicita e inimmaginabile, disumana.
3) Questo paese può fare tutto ciò perché supportato dai padroni del mondo "occidentale" che lo utilizzano come testa di ponte per controllare l'area.
4) Quelli che erano vassalli del padrone occidentale - e che finché c'era la spauracchio dell'URSS dovevano apparire liberi e eguali e quindi avevano dei margini di manovra - ora sono decaduti alla status di servi da comandare (combattere al posto loro pagando loro le armi) e da spolpare (gas e concessione del controllo finanziario speculativo dell'economia nazionale con l'ingresso dei fondi di investimento, ecc., grande distribuzione via internet, ecc.) e quindi devono semplicemente obbedire. Prima potevano avere una voce dissonante sul Medioriente, ora devono dire signorsì.
5) ll paese genocidario è alleato del nostro, ci fornisce servizi di vario genere, ha addentellati fortissimi nel governo ma anche trasversalmente nel principale partito sedicente di opposizione ("sinistra per I....e").
Gli Stati occidentali non solo stanno dalla parte del paese genocidario, senza di loro esso non potrebbe fare quello che fa, sono *complici*.
6) Per salvare la faccia con la popolazione occidentale progressista incredula si fa il giochino della piccole, tardive, concessioni: riconoscimento ma senza embargo, accompagnamento ma senza intervento, indignazione di alcuni mezzi di informazione (soprattutto in UK e USA) ma senza attaccare con la stessa intensità con cui si accusano i genocidari i propri governanti che ciò rendono possibile. Tutto ovviamente con la massima malafede e solo per sembrare bravi e onesti.
7) Non c'è niente da dimostrare, è inutile prendere sul serio le chiacchiere dei vari lacchè che quotidianamente si arrampicano sugli specchi a dispetto del ridicolo e della perdita della dignità che non hanno mai avuto. È sbagliato riconcorrerli nei loro non ragionamenti fatti solo per ingarbugliare il discorso e farlo finire in vicoli ciechi. Bisogna lasciarli perdere ed elencare semplicemente le violazioni continue e ripetute, manifestare e, soprattutto, organizzarsi perché questa indignazione diventi una voce politica.
8 ) Questa voce deve darsi uno statuto organizzativo, far capire al ceto medio nostrano che verrà spazzato via dai padroni a stelle e strisce senza pietà nel giro di breve, e che è nell'interesse nazionale anche dei più refrattari porre la questione degli schieramenti internazionali in cui conviene strategicamente collocarsi.

III. Contro la barbarie, sciopero generale!

Tutto nasce ormai più di 100 anni fa come progetto coloniale in cui arabi ed ebrei vengono ingannati con promesse di autonomia statuale ed entrambi strumentalizzati dai “grandi civilizzatori” del governo inglese.

Prosegue come tentativo di egemonia sull’area all’inizio della guerra fredda tra URSS e Inghilterra che muovono pedine sullo scacchiere (valutazione clamorosamente sbagliata di Stalin al tempo).
Già a questo punto l’escalation della violenza ha raggiunto livelli che violano sia il diritto internazionale che quello umanitario.
Subentrando le elites a stelle e strisce e aumentando massicciamente il cotrollo/finanziamento e infine cadendo l’URSS si rompe ogni argine, fino alla mattanza attuale.
La sproporzione tra le forze da mettere in campo per salvare la Palestina e il “guadagno” che può fruttare a un qualunque “decisore” internazionale è grande. La battaglia è ardua. Ma non è una battaglia vana, né solo locale.
Come nella Gerusalemme liberata accade a Rinaldo di fronte allo scudo che riflette la sua immagine corrotta, tutto ciò ha destato le masse dal torpore indotto dai paradisi artificiali in cui vengono tenute drogate, dai sessualismi, edonismi, particularismi, consumismi del nulla. Dalla percezione di una vera e propria crisi di civiltà. L’enormità è tale che non si può non vedere, non si può fare finta di niente, se non altro non si può non temere che tanta violenza fuori da ogni controllo domani possa tornare a sconvolgere l’esistenza “normale” anche da noi.
Se la crescita della coscienza politico-sociale è da tempo arrestata, è anzi in regresso, ciò non ha cancellato, almeno in molti, il sentimento di una comune umanità (che anch’esso non ha niente di naturale ma è un’acquisizione storica).
Questo risveglio va fatto fruttare. La frammentazione politica non si cancella con uno slancio di buone intenzioni. Va creata una piattaforma comune in cui convergere con un paio di obiettivi strategici comuni sui quali focalizzarsi, lasciando da parte le divisioni identitarie (che ovviamente si possono mantenere ma che non devono confliggere con il raggiungimento degli obiettivi minimi comuni).
Il primo obiettivo minimo comune, per chiamare la barbarie con il suo nome, è lo sciopero generale!

IV. Ipotesi per il dopo

Senza pretesa di dettare linee a nessuno, solo ragionamenti a voce alta per riflettere.
1) La premessa di cui sono convinto è che, se questo potente, poderoso, incoraggiante movimento non riesce a darsi una qualche organizzazione o delle linee guida di convergenza, c’è il rischio che faccia la fine di tutti gli altri movimenti che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni, ovvero che si disperda e che non si riesca a chiudere la strada alla montante reazione che gli farà seguito.
2) Il movimento è molto ampio e composito, ha molte anime e molte teste, molte identità. Ipotizzare una “unità” non dico organizzativa (direi assolutamente impossibile), ma anche ideale significa secondo me non voler guardare in faccia la realtà. Anzi, rischia di essere controproducente perché impone di trovare delle mediazioni su fortissime questioni identitarie che finirebbero per avere il sopravvento, risultare divise e, soprattutto, confinare la discussione, temo, su un inconcludente terreno ideologico.
3) Per questo movito credo che non sia questa la strada da intraprendere. Non perché sia impossibile, ma direi che è decisamente prematura e, più che a unità e organizzazione, porterebbe a divisioni.
4) L’idea dunque potrebbe essere non affrontare il tema di un’organizzazione comune, ma di (pochi, chiari, decisivi) *obiettivi comuni*, che lascino da parte le questioni identitarie e che invece valorizzino la convergenza verso temi concreti su cui tutti siamo d’accordo.
5) Ciò potrebbe essere possibile ipotizzando piattaforme terze, anche istituzionali (alleanze, coalizioni, anche una specie di “partito” che abbiano delle *precise regole di funzionamento*) in cui nessuno confuisce, ma in cui si individuano e discutono gli obiettivi comuni per i quali ci si mobilità unitariamente.
6) I punti possibili sono ovviamente molti e ovviamente soggetti alla negoziazione di chi intendesse imbarcarsi in un’operazione del genere. A mio avviso, anche per mantenere il legame con il movimento in atto uno fondamentale dovrebbe essere defalcare le ingenti spese militari programmate (e anche quelle per il ponte) e, in secondo luogo, reindirizzarle verso politiche del lavoro. Abbiamo valenti economisti eterodossi con cui ipotizzare piani di ammodernamento della rete ferroviaria secondaria (pendolari), piani per l’edilizia popolare, riqualificazione del territorio, ecc. Ovviamente scuola e sanità pubbliche, ecc.
7) È qualcosa che non va fatto in astratto o in linea di principio (come le mie chiacchiere), ma concretamente, cifre alla mano su ricaduta occupazionale, effetto volano sull’indotto, ecc. Ci sono delle figure che possono farlo.
E, come scrisse Marx alla fine della Critica del programma di Gotha riecheggiando il vecchio Ezechiele 3,19, “dixi et salvavi animam meam”, che, detto da uno che non crede nell’immortalità dell’anima, vuole suonare scherzoso 

V.  Sognare, ma con gli occhi ben aperti

Il successo dello sciopero e quello della manifestazione di ieri hanno una portata enorme, è un grande segnale di risveglio e di potenziale ripresa. A partire da questo slancio bisogna pensare al dopo da subito nella maniera più razionale possibile, con grandi aspettative ma anche senza cedere alla tentazione dei facili entusiasmi.
Il movimento è infatti estramamente composito e se qualcuno si immagina di fare jackpot a mio avviso si sbaglia di grosso. Soprattutto quando si passerà a proposte concrete di azione che vadano oltre l’indignazione temo fortemente che ci sarà una vera e propria polverizzazione. È questo ciò cui bisognerà essere pronti con un nocciolo duro e con un programma concreto che possa essere appetibile a molti.
Il programma minimo che proponevo in altro post ovviamente non include probabimente alcuna delle forze attualmente in parlamento (forse con qualche eccezione, ma certo non nei partiti di maggioranza relativa). Il PD in politica estera ed economica non è diverso dalla Meloni, quindi abbandonare la spesa militare per quella sociale non rientra certo nei suoi piani. Soprattutto perché è altrettanto filoatlantista e quindi la prospettiva è opposta. Di conseguenza è anche difficile capire che cosa farà la CGIL nella sua complessa dialettica col PD.
Dunque, non stavo parlando di questo che non rientra nel novero del possibile. Pensavo alla galassia di partiti e correnti che accetterebbero in principio delle politiche anti-guerra e pro politiche sociali che attualmente raccolgono il 2% o anche meno.
Una fetta piccola ma che può rivolgersi a una larghissima maggioranza di non rappresentati (ricordiamoci che nella Marche ha votato appena il 50%) che forse nella alternativa tra investire in bombe o in sviluppo economico-sociale opterebbe per la seconda.
Altrettanto realisticamente bisogna prendere atto che un’intesa sui “principi ideologici e fondativi” tra queste piccole realtà è adesso semplicemente impossibile e che questo è un elemento solamente divisivo. Si può invece convergere su punti programmatici comuni.
A mio modo di vedere di lì si deve partire. E sui punti programmatici (sviluppo e non guerra), non sulle indigeste ideologie, può convergere anche chi del comunismo non vuole sentir parlare neanche in cartolina.

Paolo Giovannetti, recensione di Roberto Fineschi, Nel labirinto. Italo Calvino filosofo


Rossocorpolingua, 3 - Settembre 2025, p. 79-81



Roberto Fineschi, Nel labirinto. Italo Calvino filosofo, Napoli, La scuola di Pitagora, 2025.
Collana “Diotìma. Questioni di filosofia e politica”, 33.

Paolo Giovannetti



 

Il titolo è, in sé, allettante. Di tante questioni calviniane si è parlato in occasione del centenario della nascita, nel 2023: ma l’aspetto in senso stretto filosofico è rimasto in ombra. Tanto più che – con ogni evidenza – nel libro non si parla di filosofia in genere, ma di rapporti con il marxismo, con la filosofia marxista. E qui, davvero, la bibliografia è sfornitissima. Anche per una ragione ulteriore: oggi si tende a guardare con sospetto il Calvino che si avventura in certe sintesi politiche, come per esempio gli era accaduto in un saggio a cui teneva molto, L’antitesi operaia, del 1964, che già ai tempi gli meritò sorrisi imbarazzati da parte di amici e – senza ironia – compagni, che non ritenevano adeguati i suoi tentativi di orientamento fra opposte tensioni ideologiche. A dirla tutta, il Calvino più esplicitamente e volontaristicamente pubblico degli anni che arrivano fino al 1963-1964 può apparire invecchiato, oggi (anche al netto di certi pezzi stalinisti scritti per “L’Unità”).

Merito di Fineschi è aver valorizzato, intanto, il Calvino del PCI, la cui cultura politica è sottoposta a un’analisi molto istruttiva anche in chiave letteraria, e italiana. In particolare, un certo storicismo “dialettico”, preoccupato di mettere a partito il succedersi temporale e ideale di tesi, antitesi e sintesi, avrebbe poco a che fare con il pensiero di Marx e Lenin, e molto invece con una certa tradizione crociana e umanistica. A questo proposito, viene additata la figura di Felice Balbo, importante collaboratore dell’Einaudi, cattolico comunista il cui pensiero avrebbe agito su Calvino, in modo non superficiale. È una tesi che andrebbe approfondita, e comunque le prove addotte da Fineschi convincono. Forse ancor più interessante è la caratterizzazione di un Calvino innocentemente stalinista, lettore dei Principi del leninismo, firmati appunto dal Piccolo Padre – come era normale che accadesse per ogni militante. Anche perché la componente giovanilistica e attivistica, di natura non dogmatica, del marxismo calviniano si presta a una conciliazione con la componente illuministica, già chiara negli anni Cinquanta ed evidentissima nel libro pubblicato nell’anno nodale per Calvino, il 1957: Il barone rampante.


Comincia quell’anno la seconda fase, che arriva fino al 1964. Fineschi punto molto sul saggio del 1962, La sfida al labirinto. Calvino si inserisce nel dibattito estremamente intricato intorno al neocapitalismo e allo sviluppo delle scienze umane, secondo una tendenza ascritta al neopositivismo. Il suo modo di ragionare non estremizzante finisce per essere reputato “riformista” dall’amico Cesare Cases e andrà incontro a un ulteriore smacco – come abbiamo detto – con l’uscita dell’Antitesi operaia. Eppure, osserva Fineschi, nell’apparentemente umanista e persino irenico La giornata d’uno scrutatore, del 1963, Calvino cita il Marx più attuale dei Manoscritti economico-filosofici, cercando di mettere al centro della riflessione politica il problema del corpo e della natura.

Non per caso, del resto, gli interessi scientifici di Calvino hanno modo di crescere nella terza fase della sua attività, dal 1964 al 1975. Lo scrittore continua a essere – dichiara Fineschi – un intellettuale marxista, ma il suo illuminismo e materialismo lo avvicinano – oltre al pensiero di Joseph Fourier –  a certi aspetti del pensiero leopardiano quali erano stati elaborato da Sebastiano Timpanaro, che si autodefiniva marxista-leopardista. Modernissima è un’affermazione di Calvino contenuta in una lettera a Timpanaro del 7 luglio 1970: «L’uomo è solo la migliore occasione a noi nota che la materia ha avuto di dare a se stessa informazioni su se stessa». Anche perché poco oltre ha modo di chiosare che nella sua ricerca (nella sua poetica?) ciò significa fare i conti con «un processo di conoscenza-autotrasformazione-memorizzazione (cioè: lavoro)». Un Calvino materialista e postumano (“anantropologico”), o comunque aperto a quelle questioni che oggi affrontiamo quando parliamo di antropocene? Certamente sì, e la dimensione cosmicomica e combinatoria della sua opera è lì a testimoniarlo

Infine, gli ultimi dieci anni, 1975-1985, sono isolati all’insegna di una forma di scetticismo e di pessimismo, in virtù del quale – dice Fineschi – Calvino giunge alla consapevolezza che uscire dal labirinto è impossibile. Anche il suo illuminismo perde colpi, sebbene lo scrittore non vi rinunci mai del tutto. Eppure, in qualche modo sconfitto, non ripiega sull’irrazionalismo e sull’individualismo, e testimonia fino alla fine la centralità della precisione, della coerenza concettuale, di una “morale rigorosa”. Perché ciò costituisce anche una questione di stile letterario, oltre che di vita e di pensiero.

Sono conclusioni molto interessanti: un “comunista senza comunismo”, disilluso ma ancora combattivo. Forse, nel discorso di Fineschi certi maestri francesi di Calvino, Blanchot e Barthes in testa, avrebbero potuto trovare uno spazio maggiore, anche in relazione al côté politico del discorso. Che nel 1984 Calvino e Luciano Berio si occupassero di Un re in ascolto riflettendo esplicitamente di potere e rivoluzione, non è cosa del tutto trascurabile, anche perché l’ascolto del re è quello su cui Barthes aveva lavorato pochi anni prima. Ma sono, a ben vedere, sottigliezze, che possono solo sfaccettare il convincente quadro interpretativo di Fineschi: il quale, calvinianamente, è sempre molto puntuale e limpido, anche quando in gioco ci sono questioni tutt’altro che semplici.

Thursday, 2 October 2025

El capital de Marx hoy

 

El capital de Marx hoy




Roberto Fineschi

Buenas noches a todos. Gracias al profesor Azzarà por organizar este evento y a todos los colegas que se han prestado a venir a debatir sobre él. Extiendo mi agradecimiento a los presentes por su participación.

Empecemos por el fetiche: el libro es editorialmente precioso, enriquecido con grabados de pinturas de los siglos XIX y XX sobre la historia del trabajo. Una primera nota a destacar es que el volumen ha sido publicado en la colección Millenni de Einaudi, es decir, un clásico que resiste al paso del tiempo y perdura a lo largo de los siglos. Algunos podrían interpretarlo como una especie de embalsamamiento, un bello monumento… a los caídos. Sin embargo, al menos por los contactos que he tenido con la editorial, me ha parecido que había una idea de contenido político, de política cultural. Como si hubiera una especie de malestar incluso dentro de la cultura «burguesa» oficial hacia las teorías predominantes. Probablemente, incluso una burguesía moderadamente progresista y de miras más amplias se da cuenta de que ciertos paradigmas dominantes, por desgracia, explican cada vez menos y que, por lo tantose puede considerar una instrumentación que parta de un paradigma diferente, aunque sin querer abrazarlo en su totalidad, por supuesto; tal vez ciertas categorías no sean descartables. También había una dimensión cultural, de política cultural, para dar ideas de contenido incluso a un posible movimiento progresista en sentido amplio.

Hablemos más concretamente de la edición. En primer lugar, se trata de una traducción completa, no solo mía; rendimos homenaje a mis colaboradores, que son Stefano Breda, Gabriele Schimmenti y Giovanni Sgro’. La hemos dividido en cuatro partes iguales y, a continuación, yo mismo la he vuelto a reunir y homogeneizado.

¿Por qué una nueva edición, si ya existen varias, tanto históricas como más recientes? Las más difundidas son la edición Cantimori y la edición Maffi. También está la edición Sbardella de Newton. Las ediciones Cantimori y Maffi, en particular, son buenas. Entonces, ¿por qué hacer una nueva? Principalmente por la MEGA, es decir, la nueva Marx-Engels-Gesamtausgabe, la nueva edición histórico-crítica de las obras de Marx y Engels. En ella, resumiendo para no aburriros demasiado, El capital ha pasado de tres volúmenes a quince si se incluyen los manuscritos que lo preceden y posteriores, de los cuales Engels se encargó de la edición impresa del segundo y el tercero. Uno de los manuscritos anteriores son los famosos Grundrisse, pero en realidad hay tres «Grundrisse», tres voluminosos manuscritos en los que Marx reescribió prácticamente todo. Además de estos manuscritos, también se han publicado las ediciones históricas, incluidas las diferentes ediciones que Marx y Engels publicaron en vida del primer libro, el único que Marx realmente llevó a la imprenta. La primera vez en 1867; una segunda edición alemana salió entre 1872 y 1873; la edición francesa de 1872-75 , todas ellas aprobadas por Marx. Y luego hay dos ediciones alemanas más, de 1883 y 1870, editadas por Engels, y una edición inglesa, también editada por Engels, de 1887. Entre estas ediciones hay muchas variantes. En la segunda edición alemana hay numerosas variaciones con respecto a la primera, incluso se cambia la estructura del libro: se pasa de capítulos a secciones, se crean nuevas, se subdividen los capítulos, etc. Se replanteó la estructura. Este proceso continúa con la edición francesa, hasta tal punto que el propio Marx dice al principio del libro que es mejor que la segunda alemana, hasta el punto de que incluso el lector alemán debía remitirse a ella. También aquí, comparando las variantes, se entiende de qué está hablando: por ejemplo, desarrolla la parte sobre la acumulación de manera sustancial introduciendo nuevas categorías como la composición orgánica, distingue entre concentración y centralización, etc. Separa en dos secciones la acumulación llamada original y la propiamente capitalista. Introduce el concepto de trabajador global, o colectivo, como se traduce a veces, que por ejemplo también es central en Gramsci. En resumen, es una edición que añade mucho. Marx no editó una tercera edición alemana, que habría reelaborado a la luz de la francesa, y esto ha creado toda una serie de cuestiones editoriales que siguen siendo objeto de debate. Por ejemplo, recientemente ha salido una edición inglesa de la Universidad de Princeton que adopta criterios diferentes a los que hemos adoptado nosotros. ¿Por qué? Intentaré explicar el contexto. ¿Cuál es la última versión que publicó Marx? ¡La cuestión es que no existe! Paradójicamente, un libro que publicó tres veces en vida y que revisó personalmente no tiene una versión definitiva. Cronológicamente, sería la francesa; hay algunas mejoras, así que ¿por qué no partir de esa? Porque no es una traducción en el sentido moderno. Por poner el ejemplo más llamativo: no hay «valorización». No hay una traducción coherente que utilice sistemáticamente la misma palabra en todo el volumen. Quien tenga un mínimo de familiaridad con la teoría del capital sabe que este es precisamente su núcleo. Además, por ejemplo, se omiten pasajes complejos y, en ocasiones, faltan líneas enteras. Sobre todo, lo que se echa en falta es el léxico filosófico marxista. La terminología utilizada masivamente por Marx en alemán, que tiene, en definitiva, la herencia histórica de la filosofía clásica alemana de Hegel y no solo, queda un poco «diluida», aplanada. Hay motivos objetivos, en definitiva, y muchos estudiosos franceses de la posguerra plantearon la cuestión, llegando a la conclusión de que no se podía considerar una traducción satisfactoria. En realidad, incluso el propio Marx, cuando redactó los borradores para la tercera edición alemana, no dijo que se publicara la francesa, sino que indicó la segunda edición alemana y que se modificara este o aquel pasaje de la francesa; hay tres índices en los que da indicaciones sobre los pasajes que deben sustituirse. Luego están las copias personales de Marx, en las que también había resaltado algunos pasajes. En la tercera edición alemana, Engels, siguiendo estas indicaciones, modificó el texto. Ahora bien, ¿cuál es el problema? Que no lo hizo completamente. En la cuarta edición alemana sigue añadiendo otras cosas que no había incluido en la tercera, pero, de nuevo, no lo hace completamente. Una de las cosas que no hizo, por ejemplo, fue cambiar la estructura según la cual Marx había redistribuido la edición francesa. La consecuencia fue que quienes estudian a Marx a partir del alemán o de las ediciones traducidas del alemán tienen un índice; los franceses, en cambio, como Marx había hablado bien de la edición de Roy, la reprodujeron a ultranza con un índice diferente al alemán. La edición inglesa editada por Engels en 1887 utiliza la estructura de la francesa, por lo que la edición inglesa tiene el índice de la francesa. En cambio, en la tercera y cuarta ediciones alemanas, Engels mantuvo el índice de la segunda edición. En resumen: las ediciones francesa e inglesa tienen un índice diferente al de la alemana y al de quienes la han traducido, por lo que resulta absurdo que, en los congresos, al citar, por ejemplo, el capítulo 17, no se sepa con certeza a qué texto se hace referencia; es necesario aclarar cuál es la edición de referencia.

La nueva edición de Princeton, pero también la anterior edición mexicana de Scaron, que es una buena edición, se basa en la segunda edición alemana y, en comparación con esta, ofrece las variantes de las demás. ¿Cuál es el motivo de esta decisión? Hay una ideología anti-engelsiana velada: al tener que descartar la edición francesa para la traducción, para tener una versión marxista sin la intervención de Engels había que tomar la segunda edición alemana. Esta última edición inglesa para Princeton sigue este criterio. Se pueden esgrimir argumentos a favor de esta elección, pero en general creo que es errónea. ¿Por qué? Simplemente porque tenemos como variantes y no en el texto principal partes del texto que Marx no solo proyectó, sino que publicó en la edición francesa como mejoras. Son mejoras con respecto a la segunda edición alemana, pero el lector que tiene la segunda edición alemana las encuentra como variantes y no en el texto principal.

El lector considera que los contenidos que encuentra en el texto constituyen el pensamiento más maduro del autor, y no algo superado por mejoras posteriores. No es seguro que el lector genérico vaya a leer las variantes, y mucho menos que comprenda que en ellas se encuentra el texto más maduro. Al leer la segunda edición alemana, no encontramos, por ejemplo, la composición orgánica. Es algo increíble. No encontraría varios conceptos fundamentales solo porque se han incluido en la edición francesa. Partiendo de la segunda edición alemana, se colocan en las variantes, por lo que, en mi opinión, es una elección incorrecta para el lector, ya que, a menos que sea un experto, podría no comprender que en el texto principal encuentra categorías superadas. En la tercera y cuarta edición, en cambio, aparece la intervención de Engels. No hay una solución perfecta, a menos que se haga como en la edición crítica, en la que se publican todas las ediciones, algo impensable en una traducción.

Se trataba, por tanto, de encontrar una solución «diplomática», sabiendo que la solución perfecta no existe. El objetivo era proporcionar una traducción que reflejara lo mejor posible a Marx, y la segunda edición alemana no lo consigue, porque el texto más avanzado se encuentra precisamente en las variantes. Por esta razón, decidimos tomar como referencia la cuarta edición alemana, es decir, la última editada por Engels, en la que se incluyó casi todo, y en comparación con ella, proporcionamos las principales variantes de todas las ediciones anteriores: tres ediciones alemanas y la edición francesa. Evidentemente, en la introducción se explica lo que os he explicado, es decir, que se trata de una solución diplomática y que el texto incluye la intervención editorial de Engels. Quien desee leer la segunda edición alemana, encontrará el texto en las variantes.

Las variantes son muchas, desde la p. 770 hasta la p. 1214. Además de las variantes en sentido estricto, el texto incluye también dos manuscritos, uno muy conocido, el llamado Sexto capítulo inédito, que ha sido traducido completamente siguiendo los mismos criterios de traducción, y otro manuscrito inédito, publicado por primera vez en la edición crítica, escrito por Marx entre diciembre de 1871 y enero de 1872, precisamente durante la planificación de la segunda edición alemana, en particular el primer capítulo, reescrito casi en su totalidad. Solo para dar una idea, en el primer capítulo de 1867 no aparece el párrafo sobre el fetichismo de la mercancía, que no es uno cualquiera, sino uno de los capítulos más discutidos en las interpretaciones de Marx. En este manuscrito de 1871-72 se ve literalmente la creación del capítulo, cómo añade nuevos párrafos, luego inserta la parte que en la primera edición estaba en la página x, etc.; se ve realmente la construcción. También, por ejemplo, en cuanto a la forma del valor, que es uno de los temas más discutidos en la interpretación, siempre en este manuscrito hay un replanteamiento muy importante que arroja luz también sobre cómo leer toda la sección. Hay una «divagación» de 3-4 páginas en la que Marx reconsidera un poco toda la estructura de la mercancía, la forma de valor, etc., y, en mi opinión, aclara claramente lo que piensa. Estos manuscritos se incluyen en este volumen.

El texto de referencia es, por lo tanto, la cuarta edición alemana del primer libro de 1870 e incluye todos los textos conservados que Marx escribió con la intención de escribir el primer libro, es decir, a partir de 1863, ya que el proyecto de El capital en tres libros se llevó a cabo por primera vez en 1863-65. Anteriormente, el proyecto se titulaba «Para la crítica de la economía política», pero ahora se convierte en subtítulo. La intención se expresa en la famosa carta a Kugelmann de diciembre de 1862. En el manuscrito de 1863-65 había una primera versión del primer libro de El capital, que sin embargo se ha perdido, a excepción del llamado sexto capítulo inédito.

Todos estos textos se han traducido con los mismos criterios, lo cual es una gran ventaja de esta edición. Algunos de ellos estaban disponibles, pero claramente no se trataba de la misma traducción que la de Cantimori ni la de Maffi, por lo que era difícil comparar las variantes para alguien que no pudiera consultar el alemán, ya que, evidentemente, cada traductor había adoptado criterios diferentes. La ventaja de esta edición es que estas variantes son comparables realmente como variantes, ya que hemos traducido de manera coherente en todo el texto.

La idea fundamental es proporcionar una herramienta de lectura o investigación a quienes deseen volver a abordar El capital, actualizada al estado actual de las publicaciones científicas, una herramienta más eficaz que las disponibles en el mercado.

Las variantes, que se encuentran en el apéndice, son fácilmente identificables en el texto gracias a un sistema de notas que las hace inmediatamente visibles. Hay notas curatoriales para las que hemos utilizado el trabajo ya realizado por otros en el pasado, pero profundizando en los casos en que nos ha parecido necesario; en comparación con las ediciones antiguas, se han destacado sobre todo todos los pasajes y todas las citas implícitas que hace Marx. Hay citas explícitas a Dante, Shakespeare, Schiller, etc., pero muchas veces son tácitas y pueden pasar desapercibidas incluso para el lector culto. Por desgracia, ya no somos tan cultos como lo eran en el siglo XIX, por lo que muchos lectores, incluido yo mismo, necesitamos ir a ver de qué está hablando y, por lo tanto, hemos tratado de aumentar este aparato, en particular, por ejemplo, para las numerosas citas bíblicas, etc., y las referencias a conceptos como transubstanciación, parusía, etc. Luego, claramente, las referencias a los clásicos, por ejemplo, la famosa definición de la mercancía como objeto sensiblemente supra-sensible, sensorialmente supra-sensorial, es una cita de Fausto de Goethe.

El último aspecto, pero no por ello menos importante, es la traducción. Las traducciones existentes son buenas, tanto la de Maffi como la de Cantimori. Sin embargo, hemos intentado abordar algunos problemas que, en nuestra opinión, podían tratarse con mayor profundidad. Por ejemplo, toda una serie de términos tienen más entradas en alemán que en italiano, por lo que el italiano implicaba posibles solapamientos, es decir, el uso de un mismo término para varios términos alemanes. En algunos casos, esto hacía que se malinterpretara el significado del texto. Un buen ejemplo es «rappresentare», sobre todo en los primeros capítulos, una palabra que aparece cada dos líneas, continuamente. En las ediciones disponibles, «rappresentare» se traduce con tres verbos alemanes que resultan indistinguibles para el lector italiano: darstellen, vorstellen y repräsentieren, que en la lógica del argumento marxista son muy significativos y claramente hegelianos. Darstellen se refiere precisamente a la Darstellungsweise, es decir, la forma de exposición o de presentación de la que habla Marx en el epílogo de la segunda edición alemana, es decir, la que retoma el método hegeliano. Este expresa la articulación categórica de los conceptos en su lógica intrínseca: Marx muestra cómo del concepto de mercancía se pasa necesariamente al concepto de mercancías; cómo del concepto de mercancías se pasa al concepto de dinero, etc., es decir, según Marx hay una lógica intrínseca, una necesidad conceptual en estas categorías que lleva a la articulación de la teoría. En cambio, la Vorstel- lung es la representación no en el sentido de la exposición científica, sino de la idea que los sujetos en la superficie de la sociedad se hacen del proceso, es decir, esencialmente la ideología. Simplificando al extremo, es la distinción entre ciencia e ideología. Por lo tanto, traducir con la misma palabra no permite al lector percibir esta distinción. Repräsentieren, o también vertreten, significa representar en el sentido de ser representante, de estar ahí por otra cosa. No es frecuente. Está la famosa nota 101 en la que aparecen las tres al mismo tiempo y en las ediciones antiguas todo se traducía con representar, por lo que era realmente difícil de entender.

Incluso el lector que no se plantea estos problemas asimila el texto a través del léxico utilizado. Disponer de una traducción más precisa desde este punto de vista permite una mejor asimilación inconsciente incluso por parte del lector «normal», que no se ocupa de cuestiones especializadas.

Otro caso muy difícil es Ding Sache; ambas quieren decir cosa. También aquí el problema es que en italiano hay una palabra para dos alemanas. Como era imposible encontrar dos palabras diferentes, hemos utilizado siempre cosa, pero cuando aparece Sache entre corchetes añadimos el alemán para que también aquí el lector pueda entender que se trata de dos términos diferentes. En Hegel son dos categorías claramente diferentes. En Marx la distinción no es tan precisa, pero hay algunos pasajes en los que, en mi opinión, se refiere a los conceptos hegelianos y, por lo tanto, me parece oportuno reflejar la diferencia. Otro problema son las formas adjetivales y adverbiales sachlich y dinglich, que serían «cosal» o «cosalmente», lo que obviamente suena bastante extraño en italiano, mientras que en alemán son términos comunes. Aquí hemos encontrado pequeñas perífrasis como «en forma de cosa», «como cosa», también aquí con el alemán entre paréntesis. En las traducciones antiguas a menudo se perdía la referencia a la cosa. Sobre todo en el primer capítulo, donde se encuentra la teoría de la reificación. La referencia a la palabra «cosa» es crucial, porque es precisamente ahí donde se produce este proceso de cosificación/reificación.

En aras de la transparencia, al principio del libro hay una nota del traductor en la que se explican todas estas cosas. En ella se indican las decisiones que se han tomado con respecto a los términos más significativos y se explica el motivo, de modo que, aunque el lector no esté de acuerdo con la traducción, al menos sabe qué palabra se ha traducido. Ha sido una operación de transparencia. El lector, aunque no esté de acuerdo, puede comprender cuál es el término utilizado originalmente.

Veamos dos últimos ejemplos. La distinción Erscheinung/Schein, que a menudo se traduce como apariencia. Sin embargo, hay una diferencia importante, ya que Erscheinung es el fenómeno kantiano y hegeliano, el funcionamiento de las leyes esenciales a nivel superficial, por lo que es tan importante como la esencia, es coesencial. La esencia debe manifestarse, aparecer, por lo que no es falsa. En cambio, Schein es confundir la Erscheinung con la Wesen, es decir, tomar la manifestación fenoménica por la esencia misma. El término apariencia parecía, por tanto, ambiguo, prestándose un poco a confundir las cosas. Por lo tanto, hemos eliminado apariencia, que nos parecía un término potencialmente indeterminado, y hemos utilizado manifestación para Erscheinung apariencia para Schein, de modo que la diferencia sea más transparente.

Lo último y más espinoso: cómo traducir Arbeiter. Significa tanto trabajador como obrero. Aquí el problema era el contrario al de Sache Ding; allí teníamos más palabras en alemán y una sola en italiano, aquí en cambio tenemos una palabra en alemán y varias en italiano. Esto planteaba una gran cuestión, porque, como comprenderán, traducir con «trabajador» u «obrero» cambia mucho, sobre todo porque Arbeiterklasse es la clase obrera o la clase de los trabajadores. En alemán siempre es Arbeiter. La cuestión es que tanto un obrero de fábrica como un siervo de la gleba, como un esclavo que trabaja, es un Arbeiter, porque el término significa literalmente «el que trabaja». Del verbo arbeiten, añadiendo el sufijo -er, se obtiene el sujeto que realiza la acción del verbo, como la derivación en italiano, de lavorare + -tore → lavoratore; es el mismo mecanismo de generación del sustantivo a partir del verbo. ¿Cómo traducirlo entonces al italiano? Claramente, en algunos casos no es difícil: si se trata de una persona que trabaja dentro del sistema de máquinas, evidentemente es un obrero. Si, por el contrario, se trata de un siervo que realiza trabajos forzados en las tierras del

Señor, evidentemente no puede ser un obrero, por lo que se opta por el término genérico «trabajador». O bien, cuando se trata del proceso laboral en abstracto, ¿quién es el sujeto que trabaja? Bueno, al ser abstracto, la dimensión histórica queda momentáneamente suspendida, por lo que se está considerando el trabajo en general y, por lo tanto, traducirlo como «obrero» sería engañoso, ya que no sería un concepto universal, sino particularizado. En todos estos casos no era un problema enorme. ¿Dónde surge el problema? En todos los casos en los que Marx desarrolla no tanto descripciones como leyes de funcionamiento. Por ejemplo, la creación del ejército industrial de reserva no solo funciona para el obrero, sino con todas las dinámicas de sustitución por automatización, de cualquier tipo de trabajo mecanizable, porque ahora ya no es solo el torno, sino que también alcanza los niveles de la enseñanza universitaria. Por lo tanto, este proceso no solo afecta al obrero, sino que indica las leyes de transformación de la forma de trabajar. Cuando Marx dice Arbeiter, ¿se refiere al obrero o a la transformación del trabajo en general? Se refiere a ambos al mismo tiempo y para él no supone ningún problema, porque Arbeiter significa ambas cosas. Sin embargo, en la traducción, si en este caso se desarrollan precisamente leyes específicas…

– Por ejemplo, tampoco el cálculo de la tasa de plusvalía depende de la presencia del obrero: Marx utiliza el ejemplo de un obrero, ¿hago bien en traducir con esta palabra? Sí, no me equivoco porque, efectivamente, estoy hablando de obreros, pero, en mi opinión, en parte me equivoco porque elimino la dimensión general, es decir, aquella por la que esa transformación afecta a la forma de trabajar en el modo de producción capitalista, que es más amplia que la forma de trabajar del obrero en la fábrica. En estos casos, en nuestra opinión, «trabajador» era la mejor solución, porque también se refleja la dimensión general sin eliminar la particular: ese obrero también es un trabajador. Estos criterios también se explican en la nota del traductor y, de nuevo, aunque no esté de acuerdo con nuestra interpretación, el lector puede saber que está escrito Arbeiter.

En conclusión, ¿cuál es el sentido de la operación en su conjunto? Es proporcionar a quienes desean leer El capital una herramienta de estudio actualizada, tanto desde el punto de vista de la realidad textual —mucho más rica, hay muchos más textos— como a nivel de una traducción más detallada, ya que permite captar mejor que las anteriores los matices de muchos términos que, al menos en estos casos particulares, habían desaparecido.

Fuente: Materialismo Storico, n° 1/2025 (vol. XVIII) – E-ISSN 2531-9582 (https://journals.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/5194/4530)

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